martedì 22 maggio 2012

Una grande storia d'amore


Un’occasione per accendere una riflessione sul come eravamo.
Sul come e sul perché siamo cambiati e qual’è la nostra direzione, se ne abbiamo una…a voi concludere


Erano tempi bui, molto, un po’ prima che finisse la guerra, la seconda guerra mondiale, il paese era sfatto, assalito, bombardato, misero. Per le strade odore di polvere pirica, più di qualche povero cadavere tra le macerie, da li a poco un mondo da rifare, ogni cosa, una vita soprattutto.
Il suo posto di lavoro, la sua fabbrica, in Calabria, a Crotone, dopo essersi già trasferito con la sua numerosissima famiglia,  undici persone , per sfuggire ai bombardamenti che devastavano qualsiasi cosa sul territorio siciliano. Lavora radici per ricavarne liquirizia e lì suda, ogni giorno, il suo pane. Fa l’ elettromeccanico, manda avanti, ripara all’occorrenza,  quelle poche macchine che servono alla trasformazione delle piante. Arriva il giorno in cui anche quella fabbrica, dopo quella della sua città, chiude, non ha più materia prima da trasformare e poi per chi.
Si ricomincia, ancora una volta, ritorna nella sua terra, nella sua città, dopo tanto peregrinare decide di tentare un lavoro, l’unico disponibile in quel periodo, da manovale edile.
Lui è smilzo, fragile anche fisicamente, non riesce a darsi forza abbastanza per un lavoro, duro anche oggi, ma figuriamoci in quegl’anni, senza mezzi meccanici, quando le case, i palazzi, tutte le strutture si facevano nel Catanese con il basalto lavico, quando tutto si portava sulle spalle poggiando un masso sull’altro e salendo su fino in cima.
Gli otto ragazzini, tre maschi e cinque femmine, la moglie e la suocera gli rigiravano per casa ognuno facendo quel che poteva per alleviare le “assenze” di una vita degradata da una guerra assurda, da una mancanza di tutto, si cuciva, piccoli lavoretti per i vicini, saltuariamente, la domenica, solo qualche domenica, il sugo fatto con le patate invece che la carne, “il sugo finto”, la carne non c’era e soprattutto costava troppo.
Cominciarono così gli anni dell’emigrazione dei meridionali verso nord, l’Italia, ma anche l’Europa più prossima, la Francia o ancora più su , destinazione, quasi sempre, le miniere del Belgio.
Quanti ne morirono per frane, esplosioni, malattie, quanti rimasero prigionieri di un sogno di rivalsa, quanti nel profondo di un buco.
Un giorno anche lui decise di partire, si unì ad un gruppo di ragazzotti che andavano per la stessa direzione in cerca di una speranza, salutò moglie, figli e suocera, con la speranza di poterli riabbracciare prima o poi, e si arrampicò su un treno destinazione nord, senza un soldo in tasca, senza una meta precisa, senza un qualsiasi progetto tranne quello, essenziale e prioritario, della sopravvivenza sua e della sua numerosa famiglia.
Tanti furono i giorni di treno per percorre in lungo l’Italia su quello che restava di una ferrovia, tanti per  arrivare al confine, un treno da cui scendevi stanco, esausto e nero di fumo dalla testa a piedi, un treno a carbone più che a vapore, ma ci riuscì insieme ai tanti che seguivano lo stesso destino.
Arrivò al confine italo-francese, il Monte Bianco gli si parò davanti come a volerlo dissuadere, non lo aveva ma visto lui il Monte Bianco, forse non ne conosceva l’esistenza o forse per sentito dire, per i fatti di guerra.
C’era una frontiera e qualcuno passava in Francia facendosi “amico” il doganiere coi pochi e unici soldi rimasti stretti tra le mani o comunque qualcosa di valore che potesse “distogliere” l’attenzione da quel passaggio.
Lui non aveva nulla da poter dare a quelle guardie e così assieme ad altri, nelle medesime condizioni, decise di affrontare il valico a piedi, per vie sconosciute, sentieri di montagna, freddo, neve e tutto quello che è immaginabile, ma anche no, compreso il fatto di poter essere presi di mira dalle armi dei doganieri nello “scavalcare”, per una via non proprio attrezzata e soprattutto lecita, uno “scoglio” come il Monte Bianco.
Si persero durante il tragitto ad uno ad uno, chissà dove andarono gli altri, chissà il loro destino, se riuscirono o furono catturati e rimpatriati, se durante il viaggio qualcuno morì per gli stenti e la fatica, chissà.
Lui restò solo e riuscì ad arrivare al di là della frontiera e non so come fece, qui non c’è memoria ed è probabile che non ci sia mai stata, per la mancanza di consapevolezza forse, quella di avere attraversato a piedi il più grande massiccio d’Europa fino al suolo Francese.  
Con la stessa inconsapevolezza riuscì a risalire tutto il territorio fino ad arrivare all’estremo nord, forse con l’intento di andare anche lui fino in Belgio, fino alle miniere di Charleroi.
Si fermò un giorno, forse un tardo pomeriggio, a Valenciennes, nella regione del Nord-Passo di Calais, proprio a due passi dal confine franco-belga, forse a riposarsi, a cercare di mettere qualcosa tra i denti, a tirare il fiato, a pensare ad uno ad uno quegli otto ragazzini, sua moglie, sua suocera, tutti lasciati in quella terra ormai così lontana, quella Sicilia da cui era partito per andar a trovare altrove un pezzo di pane per tutti loro. Forse a immaginare un futuro migliore dopo tanta fatica, ed era solo all’inizio.
Mentre riposava e fantasticava, rendendosi conto già d’ aver compiuto un’impresa per essere arrivato indenne fino a lì, notò, sull’uscio di un portone, un tale, un signorotto ben vestito, sembrava del posto, ma decisamente puzzolente di alcool, ubriaco come una “signa”, avrà pensato lui, accasciato come un pugile dopo un nokaut sul basolato.
Lui, ovviamente, non sapeva una parola di Francese, era in un posto che non conosceva, è probabile che non sapesse neanche esattamente dove si trovava geograficamente, diciamo che forse questo lo aveva intuito solo per la stanchezza, aveva capito sicuramente quanta strada aveva fatto una volta uscito di casa, ma altre idee di cosa fare li, in quel momento, non credo ne avesse.
Si avvicinò a questo signore per vedere se stava male, oltre ogni logica apparenza, se in qualche modo avrebbe potuto aiutarlo, per lo meno a risollevarsi da terra, lui che di forza non ne aveva più per ciò che aveva già passato.
Lo fece,  senza dirgli una parola, e cosa poteva dire ad un Francese ubriaco, nulla, niente.
Lo aiutò a rialzarsi e sorreggendolo si pose il braccio dell’uomo sul collo così da poterlo sostenere in posizione eretta. Fu qui che il malcapitato cominciò ad abbozzare qualche passo, poi un altro, col suo sostegno, appoggiandosi sulle sue magre spalle e lui lo assecondò, fecero un po’ di strada, ancora un po’, fino a quando quell’uomo si fermò ad una porta di una casa sulla via, in qualche modo riuscì a farsi sentire.
Aprì una donna, francese ovviamente, e immagino tutto quello che potette dire vedendosi davanti quella scena, quella era la casa del signorotto, la signora sua moglie.
Non capì nulla dei probabili ringraziamenti, delle imprecazioni della donna verso il marito, di tutto ciò che si può dire in un’occasione come questa in una lingua sconosciuta, lo lasciò li, salutò in qualche modo e andò via.
Forse l’indomani, non so come, e anche di questo dettaglio non c’è più memoria, il signorotto francese si mise sulle tracce del Siciliano che la sera prima l’aveva raccattato per strada e accompagnato a casa, era probabile, pensò, che avesse dormito per strada, su una panchina, all’addiaccio insomma, ma sicuramente poteva ancora essere lì, in città.
Non dev’esser stato neanche il primo, in quelle misere condizioni, che il Francese aveva già visto in giro per le strade di quella zona di frontiera.
Lo trovò e in qualche modo, non chiedetemi come, a gesti probabilmente, gli fece capire che voleva portarlo a casa sua, per un pranzo credo, una cena, qualcosa di veramente impensabile dopo tremila chilometri di “nulla”. All’improvviso, inaspettatamente, gli si materializzò davanti a suoi occhi increduli una casa, un tavolo, sedie, cibo da mangiare.
Accettò l’invito, ovviamente e non facendo neanche troppi ragionamenti, e ritornarono insieme in quel posto caldo, profumato e anche abbastanza ben arredato che era la dimora del signorotto.
Non so dirvi quale fu il tema di discussione della serata, non ne ho neanche la più recondita idea, visti i tempi, la difficoltà nel capirsi, ma so che quello fu un incontro determinante.
Il signorotto era un ingegnere, dirigente o addirittura il proprietario, di una grossa azienda francese, era talmente vasta che gli operai per spostarsi all’interno pare usassero un tram, credo fosse un’industria di costruzioni ferroviarie o qualcosa di simile.
Tra un boccone e l’altro gli propose di assumerlo alle sue dipendenze, un elettromeccanico avrebbe fatto comodo in azienda.
Lui, il Siciliano, rimase sorpreso e meravigliato. Pensava d’aver fatto una cosa normale, naturale per indole, a maggior ragione per le innate caratteristiche di socialità e accoglienza tipiche della gente del Sud, non avrebbe mai immaginato una simile riconoscenza per una cosa del tutto usuale, aiutare qualcuno in difficoltà.
Appena fu possibile, il Francese, lo portò lì e gli mostrò la fabbrica in tutta la sua vastità, ne regolarizzò la sua posizione depositando, a garanzia, 300 franchi alle autorità francesi e assumendosi la responsabilità di quell’immigrato venuto da lontano, questo fu il suo ringraziamento e il suo riconoscimento, come gli aveva già preannunciato, per ciò che egli, il Siciliano, gli aveva dimostrato quella sera.
Inutile dire che tra i due nacque una grande e fraterna amicizia, non so raccontarne episodi o aneddoti ma dev’esser stata qualcosa di veramente profondo ed eternamente duraturo.
Il Siciliano cominciò a lavorare in quella fabbrica, a riconquistare una vita quasi normale, scandita dal dormire, dal mangiare, insomma riprendendo un ritmo di esistenza ormai dimenticato da tempo, ovviamente capì che presto avrebbe potuto riabbracciare i suoi cari.
Col tempo riuscì a prendere una casa in affitto e, nel frattempo era passato quasi un anno, richiamò la sua famiglia nella nuova residenza d’oltralpe.
Lo raggiunsero tutti Maria, la moglie, Agata, la suocera, Lucia, Vincenzo, Tina, Carmela, Rita, e i piccoli, ancora in fasce, Gino e Mario.
Tutti tranne una, Laura, la maggiore dei suoi figli, appena vent’enne, che nel frattempo aveva fatto la “fuitina” e aspettava la sua primogenita, con Mimmo, un bel ragazzo del quartiere, con un lavoro “sicuro”, per quei tempi di fame, tanto da convincerli a rimanere e non seguire anche loro il resto della famiglia.
Pian piano, la famiglia, si inserì in una società che non conosceva, così diversa da quella d’origine, più facile a dirsi per i "marmocchi", più complicato per gli adolescenti e gli adulti, ma ci riuscirono tutti con grande con successo.
Con tanto lavoro e altrettanta fatica riuscirono ad acquistare una casa più grande, tutta loro, lì a Valenciennes, arrivò anche l’ultimogenita, forse a festeggiare una nuova vita per tutti, Rosetta, la più Francese, anche di cittadinanza, “ciò che si mangia in dieci si può mangiare anche in undici”, si era soliti pensare, ma quanta incoscienza aggiungo io o forse mi sbaglio…
Il Siciliano, dopo tanti e tanti anni di lavoro, in una Francia che , come il resto d’Europa, si era risollevata da quel tragico periodo che la guerra aveva portato, andò in pensione.
Tutti quegl’anni li aveva passati sempre nella stessa azienda, in quella del suo grande amico ingegnere che incontrò per caso una notte in quella sconosciuta città della Francia, che nel frattempo era diventata la sua città e quella della sua famiglia.
La sua casa fu popolata da una “nuvola” di nipoti, generi e nuore e la sua grande famiglia negli anni “colonizzò” una buona parte del territorio francese, svizzero e belga.


Questa storia inevitabilmente manca di particolari, di fatti non conosciuti, di ricordi sbiaditi dal tempo, di una memoria persa negli anni, è però una storia, una grande storia d’amore tra persone, a volte sconosciute, una donna, un uomo, una famiglia, un’intera esistenza, rispetto per i propri  simili, è il riassunto indelebile di un amore per la vita.

E’ un racconto fatto da Laura, 84 anni, proprio qualche giorno fa.       
Quell’uomo siciliano era Nicolino, mio nonno.

Francesco Giuffrida

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